di Michela Fronti
Un termine coniato da una coppia di biologi statunitensi è l’emblema di una società cieca alla natura: plant blindness. Questo termine indica l’incapacità di notare le piante nel proprio ambiente, dimostrando come la separazione dalla natura crei una profonda disconnessione tra l’essere umano e l’ambiente che lo circonda, rendendolo cieco al verde.
L’uomo da sempre ha una specie di mal funzionamento cognitivo studiato dalla neurologia. Si chiama Plant Blindness, ed è legata alla scarsa / limitata capacità di calcolo del nostro cervello. Non riusciamo a processare tanti dati e invece le informazioni che ci arrivano attraverso i nostri sensi sono in numero incredibile. Soltanto attraverso i nostri occhi entrano un miliardo e mezzo di byte al secondo. E invece noi possiamo processarne qualche centinaio.

Perciò filtriamo via tutto quello che pensiamo non sia rilevante per noi. Siccome all’inizio della storia dell’umanità ci siamo evoluti in un ambiente con tanta vegetazione, ciò sovraccaricava i nostri sensi. Per questo abbiamo imparato a isolarlo e a concentrarci sull’arrivo di altri animali o esseri umani: ai tempi focalizzarci su di loro e non sulle piante era vitale per la nostra sopravvivenza. Inoltre negli ultimi 150 anni di storia contemporanea gran parte della popolazione è sempre meno esposta all’ambiente naturale: viviamo in paesi e città completamente cementati, passando il tempo in uffici, case, palestre, piscine. Il verde che vediamo e viviamo sono le aiuole o i piccoli alberi che riescono a sopravvivere in qualche parco. Ormai perfino i vegetali che mangiamo non sappiamo da dove arrivano, li troviamo imbustati, già puliti o addirittura già cotti, ignari di tutto quello che li circonda. Come coltivarli, come proteggerli da intemperie e parassiti, come e quando raccoglierli.

La plant blindness sommata al modo di vivere moderno ci hanno strappati dalla natura. Però il nostro passato di raccoglitori / cacciatori è lungo migliaia di anni e la conoscenza del mondo vegetale la tramandiamo da più di 70.000 anni. Non siamo estranei al vegetale. Il nostro cervello e il nostro occhio sono capaci di orientarsi in mezzo a tutto questo verde, ce l’abbiamo nel DNA, dobbiamo solo riallenarli.
Penso che la raccolta dovrebbe essere una pratica condivisa, da apprendere fin da bambini, anche nelle scuole. Il rispetto per l’ambiente passa per la conoscenza, supportato dalla sensibilità verso un mondo che ci è cosi affine… Ne siamo immersi completamente perché SIAMO natura. Svegliare i nostri sensi è il prossimo passo. Proviamo a guardarci attorno e cerchiamo di distiguere i diversi profili delle foglie, le diverse forme dei petali, le differenti sfumature di verde…proviamo a risvegliare il nostro animo di raccoglitori. La conoscenza profonda della natura sarà sempre un profondo e meraviglioso segreto, ma cercare di avvicinarci affinerà la nostra sensibilità a questo pianeta, accrescendo un rispetto profondo verso di esso.
Brevi ma non trascurabili accorgimenti per la raccolta:
- Con presenza e concentrazione. La natura ci dà tantissimo ma impone rispetto pazienza e conoscenza.
- Attenzione al luogo di raccolta: evitare luoghi inquinati, vicino a campi coltivati dove è possibile che vengano usati pesticidi e sostanze chimiche, a bordo delle strade, vicino agli allevamenti. Più siamo lontani dall’attività umana meglio è.
- Raccogliere solo quello che si conosce. Mai osare. Le piante tossiche e velenose esistono. Che facciano del male a noi non significa che siano da eliminare, anche loro hanno una loro funzione, una loro bellezza nel tutto. Certo è che se raccogliamo dobbiamo essere certi di quello che facciamo, per la nostra sicurezza. Interagire con l’ambiente selvatico intorno a noi ci porta a prendere consapevolezza e a toccare con mano l’immensa ricchezza e biodiversità che ci circonda a prescindere da ciò che è utile per noi o non è utile per noi. Tutto è utile al tutto.
- Le piante protette non si colgono. Sono state redatte speciali restrizioni in termini di raccolta, esistono elenchi nazionali ed europei, ma anche regionali e direttamente collegati a aree naturali protette. Mi sta molto a cuore questo tema, perché alla sua base c’è la semplice spiegazione di un equilibrio dinamico e in costante adattamento, ecosistemi ricchi e delicati con un’armonia regolata da rapporti che noi non vediamo, non conosciamo, non capiamo. Nostro dovere è tutelare la biodiversità e la ricchezza del suolo. Le piante hanno un rapporto diretto con animali ed insetti, un nostro intervento può essere dannoso. Un esempio che ho imparato da una saggia raccoglitrice è quello della genziana lutea, pianta erbacea perenne caratterizzata da una crescita molto lenta. Quando passeggiamo in montagna può capitare di imbattersi in prati colmi di fiori di genziana e uno è portato a pensare che cogliere un solo fiore male non può fare. Ecco: questa pianta fiorisce per la prima volta dopo 10/15 anni di vita. Per riprodursi deve attendere tutto questo tempo, durante il quale potrebbe succedere di tutto…calamità naturali tra tempeste, gelate, siccità, forti venti, animali che potrebbero mangiarlo, calpestarlo…quindi capite che un solo fiore in meno abbassa notevolmente le probabilità di sopravvivenza della specie.
- Cogliere solo quello che si utilizza. Lo spreco non è contemplato. Stimare quante piante ci sono e raccoglierne solo alcune lasciandone molte intatte è un modo consapevole di mantenere inalterato l’equilibrio di cui sopra.
Raccogliere erbe fa bene all’anima. Qualcosa di antico e saggio si sta risvegliando e non vuole tornare a dormire.
“Migliaia di persone stanche, nervose e troppo civilizzate stanno cominciando a scoprire che andare in montagna è tornare a casa; che la natura selvaggia è una necessità.”
John Muir